I geni sono presenti nel 30-40% della popolazione italiana ma alcuni di questi non si ammalano mai. Il ruolo chiave del microbiota in uno studio della Fondazione Ebris.

Un autografo che precede lo sviluppo della celiachia. Dove? Nella pancia. O meglio, nel microbiota intestinale. È l’ipotesi di uno studio condotto dalla Fondazione Ebris e pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, i cui risultati, se confermati, potrebbero aprire a importanti scenari di diagnosi e prevenzione della celiachia, una malattia autoimmune che in Italia riguarda oltre 225 mila persone. La punta di un iceberg, secondo gli esperti: a fronte di un’incidenza dell’1% circa nella popolazione, si stima che gli italiani celiaci in realtà siano 600 mila, di cui 400 mila senza diagnosi (dati Aic).

I ricercatori hanno confrontato la popolazione batterica intestinale di 20 lattanti, tutti geneticamente predisposti alla celiachia, notando che il microbiota di quelli che sarebbero diventati celiaci subiva cambiamenti già 18 mesi prima dell’insorgenza della patologia. Non solo aumentavano i batteri “cattivi”, infiammatori, ma diminuivano anche quelli “buoni”, protettivi. “Essere predisposti geneticamente alla celiachia significa avere dei geni che potrebbero permettere la nascita della malattia, ossia la perdita di tolleranza immunitaria al glutine. Tuttavia cosa determini questa perdita non è ancora noto” spiega Francesco Valitutti, pediatra salernitano e ricercatore della Fondazione Ebris, tra i coordinatori dello studio. “I geni sono presenti nel 30-40% della popolazione italiana, ma non tutte queste persone diventano celiache”. A volte accade nell’infanzia, a volte più tardi, a volte mai.

L’ipotesi avanzata nello studio è che il microbiota svolga un ruolo patogenetico, ossia che le sue alterazioni siano in qualche modo responsabili dello sviluppo della patologia. “Se confermati da casistiche più ampie, i cambiamenti dei batteri intestinali potrebbero essere verificati con un semplice esame delle feci, riconoscendo l’autografo di cui parlavamo. Ciò permetterebbe di intercettare in anticipo la celiachia e fare prevenzione” spiega il pediatra. Come? “Favorendo le specie antinfiammatorie a sfavore di quelle pro-infiammatorie”. Una sorta di manipolazione preventiva della flora batterica intestinale possibile, ad esempio, “con una miscela di probiotici o prebiotici, ancora da studiare e sperimentare”.

Resta da capire (questo studio non ha dati a riguardo) cosa influenzi i cambiamenti nel microbiota creando terreno fertile per l’insorgenza della celiachia. Perché la genetica ha un ruolo, ma non è mai l’unico fattore. “Altre ricerche hanno evidenziato come l’ambiente esterno, lo stile di vita e l’alimentazione, così come il tipo di parto, possano influire sulla composizione del microbiota e sulla genesi o meno della malattia a parità di predisposizione” precisa Valitutti. “Ad esempio, tra gli ipotetici e controversi fattori di rischio ci sarebbero il parto cesareo, il latte formulato e tanti cicli di antibiotici nei primi mesi di vita”.

Non c’entra, invece, l’introduzione del glutine durante lo svezzamento. Se il bambino è predisposto, che lo mangi precocemente (al sesto mese) o meno, non cambia il suo rischio di diventare celiaco. La Società europea di gastroenterologia, epatologia e nutrizione pediatrica consiglia di inserirlo in un periodo variabile tra i quattro e i dodici mesi di vita. Meglio se in piccole quantità, da aumentare gradualmente nel tempo.

Fonte: www.repubblica.it/salute/  articolo di